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lunedì 17 ottobre 2011

La Morte - (parte I di V)

Comunicazione dell’autore (Michele Barresi) da un lavoro in corso di stampa per i tipi della Tipheret, soggetta alle leggi del Copyright.

Un funerale per gli uomini è forse una festa di nozze per gli angeli.
(Kahlil Gibran)

Per morire bene, bisogna morire per qualcuno.

La morte nella nostra cultura fa parte di quell'oscuro da cui rifuggiamo e viene abitualmente rimossa. Non se ne parla volentieri e quando se ne parla si fanno i dovuti scongiuri.
E la morte, proprio per questa sua inspiegabilità e oscurità, ha nutrito l'immaginario occidentale, con i suoi spettri (i vampiri, ad esempio) e con molte elaborazioni narrative o cinematografiche (il gotico, il nero, lo splatter...).

Tabù
Per la nostra cultura la morte resta un tabù inspiegabile spaventoso. Occorre prenderne atto.
Ciò non mi impedisce di guardare a questo terrore ad occhi aperti, cercando di capirne i motivi e le implicazioni.
Molti, invece, credono di esorcizzare questo terrore voltando lo sguardo e "scappando".
Si illudono
Se facciamo una lista degli argomenti che solitamente si evitano, troviamo il morire proprio in cima.
Quindi vale la pena di scriverne.
E ne scriviamo…
Cos'è la morte? È esattamente la fine di tutto ciò che abbiamo conosciuto. Ecco la realtà. Il punto non è se sopravviveremo o non sopravviveremo. La sopravvivenza dopo la morte non è che un concetto. Noi non sappiamo, ma crediamo, perché credere ci conforta. Non affrontiamo mai il problema della morte in sé e per sé.
Certezze e incertezze
So che si muore, e che di là non sappiamo di preciso che cosa ci sia.
Se la vita ha uno scopo anche la morte ne deve avere uno.
É un mistero.
Così non mi stanco mai di pensare alla morte.
In questa tavola esporrò senza alcun nascondimento quello che è il mio pensiero sulla morte e sul suo significato escatologico.




La morte in fondo non è altro che il processo nel quale il corpo cessa di funzionare e inizia a decadere. Ciò può avvenire per lo spontaneo e naturale decadimento dell’energia vitale che lo anima come nella senescenza o a causa di fatti debilitanti capaci di ridurre ed annullare l’energia vitale.
In questi casi possiamo parlare di morte per motivi fisiologici (naturali) o di morte per motivi patologici (malattie sopravvenute) o di morte accidentale.
Nella visione trascendentale metafisica sulla quale in altre occsioni mi sono intrattenuto punto fondamentale è che lo spirito che è in ciascuno di noi è Parte dello Spirito Infinito di Dio.
Dobbiamo tornare indietro, a quanto vi ho detto quando abbiamo parlato del "tempo dell'uomo e dello spirito individuale".
Gli "spiriti individuali" vengono da Dio stessi mandati ed incarnati in entità fisiche (uomini) per la loro rigenerazione ed il loro ritorno alla Luce dopo la caduta nelle tenebre al seguito di Lucifero.
È necessario fare una distinzione tra "spirito" ed "anima".
Alcuni considerano l'anima immortale, altri di origine e sostanza divina. Essa può risultare il contenitore dello Spirito Divino, del Sé, ovvero di una parte della cosiddetta "mente universale".
In gran parte delle più diffuse religioni l'anima è ciò che sopravvive alla morte,
Secondo la mia visione trascendentale è lo "spirito", parte dello Spirito Divino che non può perire.
Non vi sembri questa mia un’illazione priva di senso.
L'anima è energia vitale e rappresenta il "corpo sottile" che tiene lo "spirito incarnato" in comunicazione con il corpo fisico.
Materia - psiche - spirito.
Le tre forme esistenziali dell'uomo.
Al mondo materiale corrispose il corpo fisico,
al mondo psichico l’anima,
al mondo spirituale lo spirito.

Torneremo in seguito sul significato di queste tre dimensioni dell’uomo.

Abbiamo parlato di morte fisiologica e di morte patologica e di morte accidentale, tutte possono definirsi “morte predeterminata” in quanto in ogni caso la fine della attività vitale avviene nel tempo e nei modi in cui geneticamente e fatalmente era stabilita, sin dalla nascita, quella che sarebbe stata la durata della vita di ogni singolo individuo.
Il corpo si decompone e tutte le sostanze in esso contenute rientrano nel ciclo della natura in cui nulla si crea e nulla si distrugge.
Alcuni biologi ipotizzano che la funzione della morte sia quella di permettere l'evoluzione, ovvero di consentire l'alimentazione di altri esseri viventi, più spesso di specie diversa, dai quali sono predati in vita o dopo la morte.
Socialmente la morte di un uomo riguarda tutta la sua personalità, corpo, anima e spirito.
Biologicamente, la morte non riguarda contemporaneamente tutto l’organismo. È, infatti, possibile che alcuni organi o alcune cellule non muoiano subito ma che possano vivere per un certo tempo dopo la morte dell'organismo cui appartengono (ciò che rende possibile per l'uomo l'espianto di organi e il successivo trapianto).

È importante segnalare che, stante l'incertezza sul concetto stesso di morte, questa potrebbe non avvenire in un momento "istantaneo" preciso, ma essere un processo che si svolge durante un certo lasso di tempo, rendendo il concetto di "momento esatto della morte" privo di significato.

Pensate per un momento a quanti attributi sono stati dedicati alla parola Morte.
Morte naturale, morte violenta, morte eroica, morte augurata, morte desiderata, morte gloriosa, morte giusta, morte ingiusta, morte santa.
Numerosi sono gli aforismi sulla morte. Ne ricordo qualcuno:
• La morte può essere l'espiazione delle colpe, ma non può mai ripararle. (Napoleone Bonaparte)
• La morte raggiunge anche l'uomo che fugge. (Orazio)
• La morte si sconta vivendo. (Giuseppe Ungaretti)
• La morte è l'una o l'altra di due cose. O è un annullamento e i morti non hanno coscienza di nulla; o, come ci vien detto, è veramente un cambiamento, una migrazione dell'anima da un luogo ad un altro. (Socrate)
Tra questi quello che più mi colpisce è quello attribuito a Socrate.

Da sempre la Morte ha un significato sociale.
Resta il fatto che la morte è l'ultima attività della vita. Morire deve essere qualcosa di straordinario, entrare in una dimensione che non abbiamo mai immaginato, totalmente sconosciuta o …… nel nulla.
La morte si colloca tra la fine e l'oltre.
La caducità ha spinto da sempre gli uomini a interrogarsi sui valori della vita, sul suo senso, sul suo destino.
Nelle società arcaiche la morte era concepita in genere come evento collettivo, era un trauma che colpiva la comunità. Non rescindeva definitivamente i legami: vivi e morti comunicavano tra loro, oltre la morte.
Ma la morte, già a partire dalla tradizione antica - valga per tutti Epicuro - era concepita in tutt'altro modo: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti” (Epicuro, Lettera sulla felicità).
La morte, altare di ogni altra realtà, è un evento inevitabile.
Nelle società contemporanee, la vita si difende dalla morte, rimuovendola, fino ad ignorare il morente.
Ma la morte non si può cancellare, si può non farla apparire.
Nella morte in qualche modo si è sempre soli, ma questo non è di per sé un danno.
Se la rimozione della morte ammala la società di falso ottimismo, la morte privata, la sobrietà e il pudore danno alla morte una dignità forse più alta di un pubblico cordoglio, ritualizzato e senza amore.


Morire bene

Per morire bene, bisogna morire per qualcuno, ciò è difficile, ma non impossibile.
Nelle società arcaiche si viveva insieme, si stava insieme, c'era una continuità di spazi, di ritmi di vita.
Era difficile, in quelle società, cercare e trovare la solitudine, c'era un'interazione continua; e quindi la morte certamente era patita dall'individuo, ma era patita anche e soprattutto dalla comunità.
La comunità viveva la morte di un suo membro come una perdita, come una perdita radicale, come una ferita.
Proprio nei momenti di morte - i rituali di morte sono nati così -, la comunità si stringeva.
E anche nelle società più recenti, dove ci sono residui arcaici, nella morte c'è il dare, il portare il cibo ai parenti, in cui c'è stato l'avvenimento mortuario, le visite, cioè tutti i fenomeni che sono presenti nella nostra società molto meno di quanto non lo fossero nelle società arcaiche, dove tutta la società si stringeva a comunità nei confronti della morte e c'era questa ferita nella comunità, questo senso di perdita.

Oggi compare un nuovo attributo per la morte: la morte spettacolo

Nello svolgimento della modernità c'è stata sempre di più una personalizzazione della morte.
La morte è diventata sempre di più un’esperienza individuale.
Nella modernità si sviluppa, viene sempre più avanti questo tema della naturalità della morte, che già c'era nel mondo antico.
Ogni uomo muore perché la morte matura dentro di lui.
Quindi c'è questa dimensione di naturalità della morte.
Cosa è successo?
Nel momento stesso in cui l'uomo assume come ovvia la naturalità della morte e addirittura non crede più nell'altro mondo, o non crede più alla vita eterna o all'altra vita, la morte - è naturale -, dovrebbe essere più facilmente accettata.
Ma questo non è avvenuto, perché in concomitanza della persuasione che la morte è naturale, si è sviluppata la tecnica.
La tecnica ha la possibilità di differire la morte, perché c'è stato un prolungamento della vita, c'è la possibilità di durare a lungo nella malattia, per quanto la morte sia pensata come naturale, è vissuta come innaturale.
Il risultato finale di questo è che l'uomo, affidato alla tecnica, è sottratto alla comunità.
Questo è un problema presente nelle nostre società, perché la morte resta sempre un fattore drammatico.
É lo spettacolo della vanità della vita che si dissolve.
Anche se la morte è naturale, il vivente, fino a che vive, non vuole morire.
Quindi c'è un elemento traumatico nella morte, un trauma profondo che spinge l'uomo a interrogarsi sul senso della sua esistenza.
Si diceva prima, nelle società arcaiche, ma anche in quelle più recenti, quelle dei nostri genitori insomma, la morte si incontrava nella vita, nel senso che il malato stava a casa, c'era un'assistenza del paziente, si vedeva morire la persona, si stava fuori, ma poi si tornava, cioè c'era un contatto fisico con la morte.
Con la tecnica il morente è sottratto, perché è affidato al competente.
Il risultato pratico è che, per quanto ci siano relazioni d'affetto, non c'è il contatto fisico con la morte.
La morte, in quanto gestita dalla tecnica, viene sottratta all'ordinario della vita.
E nella vita corrente di ogni giorno, si cerca di fare sparire la morte.

L'informazione mediatica ci mostra solo immagini vitali, immagini di bellezza.
Si dà un'immagine di sanità.
Eppure la morte c'è.
E ci sono eventi terribili in cui la morte c'è.
E allora come appare questa morte?
Nella forma della rappresentazione, dell'epopea del macabro.
La morte è qualcosa di rappresentato e non di vissuto.
E quindi, in questo senso, è resa visibile, ma, nello stesso tempo, è resa finta, perché non entra nella quotidianità della vita.
É talmente spettacolarizzata da sembrare inverosimile.
La morte è ridotta a film.
Di conseguenza, nel momento in cui entra nella vita, è anche falsificata.
Allora noi molte volte siamo irresponsabili rispetto al dolore che abbiamo attorno, e ci beatifichiamo, anzi ci eccitiamo, con il macabro, con il terrore. Vedete la filmologia contemporanea: il terrore è diventato un ingrediente shock, un effetto shock sul soggetto.
Questa è la dimensione di falsificazione della morte: la morte spettacolo.
Praticamente la rimozione della morte.
Perché avviene questo ai nostri giorni? Una possibile risposta è: la cultura industriale in cui viviamo, l’efficienza, il produrre, il non perdere tempo, mascherano ed occultano la morte.
Le società moderne, soprattutto quelle occidentali tecno-industriali avanzate e ancor di più quelle, di cui stiamo sperimentando gli albori, basate su relazioni globali e sulla predominanza e pervasività dell’informazione, tendono a nascondere la morte, a vergognarsene, a non ammettere socraticamente che non abbiamo il controllo di tutto.
Nelle società contemporanee, la vita si difende dalla morte, rimuovendola, fino ad ignorare il morente. Ma la morte non si può cancellare, si può non farla apparire.

Che ne facciamo del corpo?

Ci sono modi diversi di sepoltura.
O per meglio dire ci sono "rituali" diversi che mirano allo stesso scopo: l'eliminazione del cadavere dal vissuto della società.
I modi per risolvere il rapporto con il corpo del morente e con il morto poi cambiano da società a società.
In alcuni casi c'era la cremazione, addirittura in certe culture iraniche i corpi venivano esposti, in modo che li mangiassero gli uccelli.
Quindi, diversi sono i rituali.
Il rito di sepoltura è antichissimo ed è sempre stato, perché in certo senso bisognava allontanare il morto dalla comunità, perché poteva tornare - questo era nella concezione arcaica -, poteva tornare anche a vendicarsi dei torti subiti.
In alcune culture non si sapeva mai se il morto fosse morto davvero, fin quando esisteva il cadavere come carne, prima della putrefazione.
La vera sepoltura era la seconda sepoltura, cioè il passaggio del morto dall’inumazione nella terra nell'ossario.
Allora era morto definitivamente.
Ci si difendeva dal morto e nello stesso tempo lo si onorava e quindi lo si placava.
Per cui i riti di sepoltura erano modi attraverso cui la società si teneva in contatto coi morti, ma allo stesso tempo si difendeva dai morti.

I modi, i rituali, attraverso cui questo avveniva, cambiavano nelle diverse società, nelle diverse culture.
Ma c'era fondamentalmente un rapporto con l'oltre.
Ecco, nelle nostre società questo rapporto con l'oltre ormai non c'è più.
Nelle nostre società il rapporto con l'oltre è tramontato.
Nel Medioevo i morti non venivano seppelliti in veri e propri cimiteri, venivano seppelliti o accanto a chiese, oppure addirittura nei muri di casa.
Ci sono delle scoperte in cui i morti vengono incastonati nella casa, cioè non uscivano dalla casa, erano nei paraggi lì, addirittura poteva essere inumato in una parete della casa, in un muro particolare.
C'era una continuità tra morte e vita.
Per noi la morte è diventata un qualcosa di staccato dalla vita e quindi diventa una dimensione di eccitazione, di spettacolarità.
Perché, nel contesto della vita, la morte è allontanata, è cancellata, è dimenticata dalla nostra stessa vita.
La componente di giovanilismo, cioè il sentimento che non si possa mai morire è quello che è coltivato.

Heidegger diceva che nella morte il soggetto non è mai sostituibile.
L'unica situazione per un uomo, in cui è protagonista assoluto e non può essere sostituito da nessuno, è la morte.
Quindi nella morte il soggetto fa l'esperienza più propria, cioè, della sua radicale unicità.
È in base alla morte che noi siamo unici.

Morire per qualcuno

Per morire bene, bisogna morire per qualcuno, cioè è difficile, ma non impossibile.
Ma la morte non è soltanto l'esperienza della propria unicità, ma è anche l'esperienza del legame, perché nella morte si muore sempre per qualcuno e chi ama qualcuno che muore, perde colui che muore.

Vivere la morte

E quando muore qualcuno, con quella persona muore tutto quello che io avrei potuto vivere con lei, fare con lei.
Quindi la morte dell'altro porta con sé definitivamente a morte tutte le possibilità che io avrei potuto vivere con lui.
Quindi nella morte c'è l'esperienza dell'autenticità, ma anche l'esperienza profonda della relazione.
Ecco perché, nelle società antiche, la morte era sentita come trauma della comunità.
Quindi bisogna tenere insieme tutte e due gli aspetti: gli aspetti dell’insostituibilità, unicità nel morire, ma anche gli aspetti profondi della razionalità; questo è un tema importante perché spesso nella sociologia contemporanea, nella vita contemporanea, si parla di solitudine nella morte.
La paura della morte per molti versi è inevitabile, nel senso che il vivente, in quanto potenza ad esistere - perché questo vuol dire vita -, è appunto colui che rifiuta la morte.
La vita rifiuta la morte, ma l'uomo ha compreso che la morte matura dentro di noi.
La vita cresce, ma alla fine si dissolve.
Quindi c'è questa inevitabilità della morte. Però il fatto che la morte sia inevitabile, non vuol dire che, per ciò stesso, diventa accettabile.
Per tutta la vita c'è questo combattimento tra la vita e la morte.

La morte, che non è quella che viene alla fine, ma le molte morti che attraversano la vita: i desideri mancati, gli amori falliti, i figli perduti.
Ecco, a fronte di tutto questo, l'uomo ha risorse, può rilanciarsi, noi nella vita, abbiamo la potenza di molte resurrezioni.
Quando questa capacità di risorgere finisce la morte che verrà è naturale.
Il problema non è di allontanare la morte che viene alla fine, ma di realizzare al meglio la propria vita.

Visto che la morte è naturale, proprio perché dovrò morire, devo vivere con pienezza questa vita, cercando di valorizzarla al massimo.
Al contrario c'è chi pensa che proprio perché deve morire, la vita, questa vita non vale niente, diviene necessario il pensiero di un al di là, oltre la vita che se fosse fatta solo per la morte non si capirebbe a cosa serve.
La dimensione dell'ignoto è la dimensione dell'oltre ed è la dimensione per cui c'è un'intimità stretta, sin dalle origini, tra la morte e il sacro.
La morte è la fine di tutto, oppure è un confine che ci spinge una parte di noi verso un “al di là”?
"Essere o non essere".

La vita non varrebbe la pena di viverla, se non ci fosse la dimensione dell'oltre.
La società contemporanea ormai ha perso sempre di più la dimensione dell'oltre.
Può rimanere, quando va bene, la dimensione del ricordo.

Verrebbe da pensare che se nella morte non c'è più esistenza, allora la morte non esiste.
Epicuro, quando allontana da se la paura della morte dice: «Quando c'è la morte non ci siamo noi, quando ci siamo noi non c'è la morte, quindi la morte non è un male».
Questa concezione epicurea è diventata la concezione corrente delle culture non religiose contemporanee.
Non vede nella morte il vero punto drammatico della vita: che la morte che l'uomo incontra è quella che egli incontra nella vita.
É nell'esperienza del dolore che c'è la morte, poi, secondo Buddha il “nirvana”, l’annientamento.

Il pensiero di perdersi del tutto, ecco, questo è importante.
In che senso noi viviamo la nostra morte finale come importante?
Perché la anticipiamo nella vita.
Heidegger parlava proprio di anticipazione della morte, quindi diventa importante, non quando verrà, ma perché è sempre presente nella nostra vita, come la nostra estrema possibilità.
In questo senso, la morte ci appartiene.
Ci appartiene come il nostro ultimo confine, come la nostra più propria possibilità.
La morte noi la viviamo incontrandola nella vita, in quelle piccole morti o grandi morti che sono le nostre sofferenze, dalle quali c'è una possibilità di risorgere.
Si muore per gli altri: si muore sempre per qualcuno.
È una bella morte quando nel morire ci si lascia in eredità, cioè qualcuno che accolga il morente in sé, quasi per continuare il suo compito.
Per morire così bisogna vivere bene.
Si muore soli, perché si è vissuti soli.
L'unico modo attraverso cui il morto può vivere è nella memoria di chi sopravvive.

Comunicazione dell’autore (Michele Barresi) da un lavoro in corso di stampa per i tipi della Tipheret, soggetta alle leggi del Copyright.